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Rispettare lo spirito della liturgia
Valentín Miserachs Grau sullo stato della musica sacra in Italia al convegno per gli 80 anni della fondazione dell'Istituto diocesano di Trento

Sono lieto di rappresentare un legame ideale fra Trento e Roma, fra il vostro e il nostro Istituto, il quale si avvia a grandi passi alla commemorazione del suo centenario dalla fondazione, avendo aperto i battenti nel 1911 per volere di Pio X.
Scrivevo nella presentazione del primo volume di Excitabo auroram, edito recentemente dalla Libreria editrice vaticana e dal Pontificio istituto di musica sacra (Pims), che raccoglie varie mie conferenze in varie lingue: "Il contenuto delle singole conferenze (...) propone ripetutamente gli argomenti contenuti negli scritti più corposi (...) Cionondimeno, in ogni singolo scritto c'è pur sempre qualcosa di nuovo che ci consente, in certo modo, di seguire l'evoluzione della problematica in questione nel giro di questi ultimi decenni". Come sottolineavo nella conferenza del 2002 Chiesa e Musica Sacra, passato, presente e futuro, "dal 1995, data della mia nomina a preside del Pims, le mie attività prettamente musicali hanno subito un rallentamento dovuto agli impegni e agli obblighi derivanti dalla direzione dell'Istituto (...). Inoltre, mi è caduta sulle spalle una sorta di responsabilità morale relativa alla situazione generale della musica sacra nella Chiesa cattolico-romana. Molti si rivolgono all'Istituto come se fosse un organo con facoltà normative in fatto di musica liturgica, mentre esso altro non è che una istituzione accademica che ha per missione l'insegnamento - e la pratica, naturalmente - della musica sacra.
"Negli anni mi sono reso conto che non esiste uno specifico ufficio pontificio di vigilanza sulla musica liturgica. All'interno stesso della Congregazione per il Culto Divino, che dovrebbe essere l'organismo più interessato al problema, non esiste, almeno a conoscenza del preside dell'Istituto, alcuna commissione specifica in proposito; di qui la scarsità di documenti ecclesiali in materia.
"All'infuori del capitolo VI della costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II dedicato alla musica sacra (1963) e della successiva istruzione sulla musica sacra nella liturgia (Musicam sacram) di quella che si chiamava la Congregazione dei riti (5 marzo 1967), pochissime altre cose sono state dette sull'argomento. Questa sorta di silenzio ha di fatto consentito, pur accanto a nobili sforzi per seguire il retto cammino, un'anarchica proliferazione dei più disparati esperimenti - condotti forse in buona fede - che, in molti casi, hanno introdotto nella musica liturgica un cumulo di banalità mutuate dalla musica leggera di consumo o di altri stravaganti prodotti esotici, dimenticando quanto lo stesso Paolo VI aveva detto, nel 1968, rivolgendosi ai partecipanti al congresso nazionale dell'Associazione Italiana di Santa Cecilia: "Non tutto ciò che è fuori del tempio è atto a superarne la soglia"".
Dal 1995 sono passati quasi tredici anni, e io non so per quanto tempo ancora sarò a capo del nostro amato Istituto. Certo, non ho mai perso l'occasione di denunciare una situazione di degrado evidente nel campo della musica liturgica, in Italia, ma non solo. Diciamo che ci sono delle rare eccezioni, che magari caratterizzano tutto un territorio, come vorrei credere che succeda in una regione e in una città che è conosciuta universalmente per quel Concilio che, anche in campo liturgico e musicale, cercò a suo tempo di raddrizzare le cose. Non ci poteva riuscire nel canto gregoriano, segnato da una profonda decadenza, e che approdò alla famigerata edizione medicea. Vi riuscì invece nella polifonia, ottenendo da essa una più grande aderenza testuale, liturgica, additando il canto gregoriano come sorgente tematica feconda e ineludibile.
Quanto siamo lontani dal vero spirito della musica sacra, cioè, della vera musica liturgica! Non mi dilungherò in un problema che è agli occhi di tutti. Cito solo un paragrafo della stessa conferenza: "Se riconosciamo dignità e qualità ad alcune composizioni di musicisti locali e forestieri, e lo sforzo, per nulla facile, di dotare le nostre liturgie di un degno repertorio musicale, come possiamo sopportare che un'ondata di profanità inconsistenti, petulanti e ridicole abbiano acquistato con tanta faciloneria diritto di cittadinanza nelle nostre celebrazioni? Ci sbagliamo di grosso se pensiamo che la gente debba trovare nel tempio le stesse sciocchezze che le vengono propinate fuori; la liturgia deve educare il popolo - giovani e bambini compresi - in tutto, anche nella musica".
Se, nel corso dei secoli, ogni abuso e degenerazione ha provocato una sana reazione della Chiesa, una "riforma", come fu il caso già accennato del Concilio di Trento, toccò poi a Pio X, quando l'evoluzione della musica di chiesa, dal barocco del sei e settecento giunse ad un inammissibile dilagare dello stile teatrale nell'ottocento, operare una "riforma" a fondo con il suo famoso motu proprio Inter sollicitudines, elevandolo a "codice giuridico della musica sacra". L'ambiente era preparato e maturo. Basta ripassare un po' le lettere che Perosi scriveva da Ratisbona; e anche in Italia, ad opera dell'Aisc, di congressi e di riviste (come non ricordare il padre Angelo De Santi, nostro primo preside, estensore egli stesso della bozza del motu proprio), si stava attuando un recupero del repertorio gregoriano e polifonico e dello spirito stesso della musica sacra nelle composizioni di nuovo conio, per non parlare della rinascita dell'organo. Con il documento di Pio X gli sforzi in atto vengono catalizzati e potenziati e i frutti furono veramente abbondanti. Non tutto fu buono e della stessa qualità, ma noi viviamo ancora dell'eredità di quella "riforma": Perosi e Refice, e tanti altri, sono perennemente giovani.
Guidati dalla mano di Pio X - cito la conferenza La musica liturgica prima e dopo il Concilio Vaticano II, del 2006 - "giungiamo alla soglia del Concilio Vaticano II. I documenti di Pio XII e della Congregazione dei riti si limitarono all'applicazione del motu proprio, restringendone se mai gli ampi orizzonti. Quanto è successo dopo il Concilio, l'abbiamo vissuto nella nostra carne, e spesso si è trattato di mistero di passione. Specialmente nell'amara constatazione che la prassi è andata su sentieri molto diversi da quelli effettivamente indicati dal Concilio.
"Ad un programma tutto sommato eccellente, che avrebbe dovuto chiamare a raccolta tutte le forze vive liturgico-musicali per studiare un efficace programma di azione, è seguita una risposta a dir poco deludente. Roma, purtroppo, declinò le sue precise responsabilità nella missione di salvaguardare l'unità nella varietà. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, e forse potrebbero riassumersi in una sola parola: anarchia. Oserei dire che in nessuno degli ambiti toccati dal Concilio - e sono praticamente tutti - si sono prodotte maggiori deviazioni che in quello della musica sacra. Roma non avrebbe mai dovuto declinare la sua responsabilità normativa. Sono stati necessari quaranta anni di attesa per avere un documento pontificio importante in materia, come effettivamente lo è il chirografo di Giovanni Paolo II dal titolo Mosso dal vivo desiderio, commemorativo del centenario del motu proprio Inter sollicitudines di Pio X. Ma poiché tale documento non prende alcun provvedimento concreto essendo il tema troppo scottante, si è fatto presto a chiuderlo nel cassetto, e si è ripetuta la storia di alcuni documenti pontifici che precedettero l'Inter sollicitudines; persino un'enciclica così importante in normativa musicale come l'Annus qui di Benedetto XIV rimase lettera morta. Eppure il documento è bellissimo, e va nel senso di una convalida, ma anche di una lettura moderna e interiorizzata, del motu proprio del 1903, senza spostarne una virgola, ricuperando anzi certi concetti messi precedentemente a tacere, come quello di universalità richiesto a qualsiasi musica liturgica degna di questo nome.
"Non siamo stati capaci di valorizzare le cose giuste, buone e belle, anche di nuova produzione; le abbiamo bensì sostituite con un cumulo di banalità spaventose, altro che le "cavatine d'opera" del tempo di Pio X. Abbiamo chiuso la bocca a chi poteva dire qualcosa di interessante e abbiano invece sostenuto, su parametri di leggi di mercato, chi sarebbe stato meglio tacitare. Abbiamo imposto al popolo di dimenticare le cose buone che sapeva e l'abbiamo costretto all'avvelenamento puro e semplice. Abbiamo reso difficile la vita alle scholae cantorum, agli organisti, ai maestri, umiliandoli, pretendendo un volontariato a costo zero, dimentichi che anche loro hanno diritto alla giusta mercede. A cuor leggero li abbiamo allontanati, sostituendoli spesso e volentieri con la discoteca, contribuendo così a gonfiare le tasche di mercanti senza scrupoli a spese del popolo che avrebbe diritto a ben altra sostanza. Sono cose dure, lo so, ma, fatte le dovute e onorevoli eccezioni, purtroppo veritiere.
"A Concilio chiuso, i guai cominciarono presto. A Roma, alla fine degli anni sessanta, abbiamo assistito al fenomeno della cosiddetta "messa beat", ad opera del compositore Marcello Giombini (che non era certo un analfabeta in musica) col patrocinio dello stesso cardinal Giacomo Lercaro. Giombini ha fatto ancora in tempo a esprimere un pubblico mea culpa; ma penso che anche Lercaro, da grande uomo di Chiesa qual era, se fosse vissuto più a lungo, avrebbe posto un freno ai suoi entusiasmi. La "messa beat" ebbe l'effetto di una deflagrazione nucleare, con la fatale conseguenza di vedere riconosciuto diritto di cittadinanza liturgica a una prassi tanto pericolosa quanto azzardata: e cioè, che la musica liturgica poteva essere - o doveva essere? - una semplice trasposizione della musica profana di moda. Erroneamente e ingiustamente tale musica di consumo, inconsistente, viene detta popolare, come del resto altrettanto erroneamente vengono chiamati concerti quegli schiamazzi, quei frastuoni e quelle contorsioni che tanto deliziano oceaniche folle di sprovveduti. È proprio questo falso genere popolare, imposto dalla forza travolgente dei mezzi di comunicazione al servizio di mercanti senza scrupoli, che ha fatto inaridire le pure sorgenti del canto gregoriano e di quella musica popolare e colta, che costituivano il decoro più bello delle nostre chiese e delle nostre celebrazioni".
Nel pontificato di Benedetto XVI, oltre a qualche discorso come quello in occasione della benedizione del nuovo organo di Ratisbona e a qualche discreto ma significativo gesto legato ai problemi che ci occupano, sul piano dottrinale per il momento non possiamo che citare la nota "conclusione" del sinodo dei vescovi, che il Papa raccoglie nella sua esortazione postsinodale Sacramentum caritatis, con qualche sottolineatura in più. La "conclusione" esorta a vagliare la possibilità di un uso del latino e del canto gregoriano negli incontri internazionali. Cosa giusta e saggia. Ma io mi chiedo: se non vengono praticati negli incontri nazionali o locali, come saremo pronti a farlo in quelli internazionali? Si esorta parimenti a fare in modo che i giovani sacerdoti, sin dal seminario, si abituino a "capire" la messa in latino, solo "capirla". Anche per quel che riguarda il coinvolgimento del popolo, il discorso è timido assai.
Attualmente, tanti giovani sacerdoti sentono il fascino della grande tradizione della Chiesa cattolica, ma sono inermi e impreparati. Sono un po' come la strada del Vangelo, su cui cade il seme, ma gli uccellini lo portano via. Manca l'humus, e non è colpa loro. Quanti fermenti che si manifestano non solo in parte del clero giovane ma anche in numerosi laici, in diversi Paesi del mondo. Di riflesso quest'attenzione è viva anche nel Pims, che ospita allievi provenienti da diversi continenti. Tutto ciò mi fa sperare che ci sia effettivamente un terreno fertile sul quale lavorare. Come dicevo nel congresso nazionale messicano di musica sacra, svoltosi nella città di Torreón nel 2006: "Ho in preparazione un volume contenente varie conferenze e scritti su questi argomenti, avrà come titolo la frase del salmo Excitabo auroram. Io sento l'approssimarsi di questa aurora, sento che le istanze che ne vogliono affrettare il chiarore serpeggiano nella base, in un desiderio che si diffonde e si rinsalda in settori sempre più ampi del popolo di Dio. Non sarà facile, come non fu facile allora (ai tempi di Pio X); sarà anzi più difficile, ma occorre almeno sapere qual è l'indirizzo giusto, quale è la meta verso la quale orientare i nostri passi".
Inoltre come dicevo nella citata conferenza del 2002: "Occorre far notare una differenza di non secondaria importanza: le riforme del passato dovevano fare i conti con musiche forse "eccessive", ma formalmente corrette. Molta musica che si scrive oggi, o si mette in circolazione, ignora invece, non dico la grammatica, ma perfino l'abbecedario dell'arte musicale. I moderni mezzi di diffusione sulla base di una generale ignoranza, specie in certi settori del clero, cui si abbina una prepotente arroganza, fanno da altoparlante a suon di grancassa a certi prodotti che, mancando di quelle caratteristiche indispensabili alla musica sacra (santità, arte vera, universalità) non potranno mai procurare un vero bene alla Chiesa, ma, dopo aver dilagato lasceranno dietro di sé solo un deserto".
Ecco perché si impone oggi una energica "riforma" nel senso di una radicale "conversione" verso la norma della Chiesa; e tale "norma" ha come punto cardinale il canto gregoriano, sia in se stesso che come principio ispiratore di ogni buona musica liturgica. Nova et vetera: il tesoro della tradizione e le cose nuove, radicate però nella tradizione. Ipso facto, le cose fiacche, o non buone, dovrebbero cadere da sé. Vinciamo il male con il bene.
Come dicevo il 5 dicembre 2005 presso la Sala del Sinodo in Vaticano per la Giornata dedicata alla musica sacra dalla Congregazione per il Culto: "Il canto gregoriano non deve rimanere nell'ambito dell'accademia, o del concerto, o delle incisioni discografiche, non si deve mummificare come un reperto da museo, ma deve tornare ad essere canto vivo, anche dell'assemblea, che troverà in esso l'appagamento delle più profonde tensioni spirituali, e si sentirà veramente popolo di Dio. È ora di rompere gli indugi, e dalle chiese cattedrali, dalle chiese maggiori, dai monasteri e dai conventi, dai seminari e case di formazione religiosa deve venire l'esempio illuminante, e così anche le parrocchie finiranno per essere contagiate dalla bellezza suprema del canto della Chiesa.
"E il canto gregoriano riecheggerà suadente, e amalgamerà il popolo nel vero senso della cattolicità. E lo spirito del canto gregoriano informerà le composizioni di nuovo conio, e guiderà col vero sensus Ecclesiae gli sforzi di una retta inculturazione. Anzi, direi che le melodie delle varie tradizioni locali, anche di paesi lontani e di cultura ben diversa dalla nostra, sono parenti prossime del canto gregoriano, e anche in questo senso il canto gregoriano è veramente universale, a tutti proponibile, e capace da fare da amalgama, nel rispetto dell'unità e della pluralità. D'altronde sono proprio questi paesi lontani, queste culture che si sono affacciate di recente sull'orizzonte della Chiesa cattolica ad insegnarci l'amore per il canto tradizionale della Chiesa. Queste chiese giovani, unitamente all'aiuto ministeriale che stanno già dando alle nostre stanche chiese europee, daranno a noi l'orgoglio di riconoscere, anche nel canto, da quale pietra siamo stati tagliati".
Questo è l'indirizzo che il Pims, nella sua storia quasi centenaria (siamo nel 96° dalla fondazione) ha cercato sempre di seguire, e ora più che mai, come cercano di fare le scuole diocesane "in armonica sintonia", per usare l'espressione di Benedetto XVI che, come è noto, ha visitato il Pims il 13 ottobre scorso. Cito l'ultima parte dell'illuminato discorso che il Papa ha rivolto a professori ed alunni dell'Istituto: "L'autorità ecclesiastica deve impegnarsi a orientare sapientemente lo sviluppo di un così esigente genere di musica, non congelandone il tesoro, ma cercando di inserire nell'eredità del passato le novità valevoli del presente, per giungere a una sintesi degna dell'alta missione a essa riservata nel servizio divino. Sono certo che il Pims, in armonica sintonia con la Congregazione per il Culto Divino, non mancherà di offrire il suo contributo per un "aggiornamento" adatto ai nostri tempi delle preziose tradizioni di cui è ricca la musica sacra".
A mio giudizio sarebbe opportuna l'istituzione di un ufficio dotato di autorità in materia di musica sacra. Non che esso solo possa bastare a risolvere radicalmente il problema, ma mi pare che, finché non si disponga di tale strumento, l'azione dei pochi, siano pur diocesi o interi territori, viene isolata, come se si trattasse di privata iniziativa. Altrimenti, chi dirà, con una forza che superi l'auspicio, che nelle chiese cattedrali, basiliche, monasteri, case di formazione e seminari, occorre che ci sia almeno una messa domenicale in latino e degnamente cantata? Chi dirà che occorre che vi sia un repertorio minimo di canto gregoriano d'obbligo per tutti? Chi si prenderà cura di "orientare sapientemente" i repertori e le scelte delle chiese locali? Nessuno pensi che tali cose sono vincolate ad un eventuale e occasionale ripristino del rito di Pio V, a norma del motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Torniamo semplicemente al Concilio Vaticano II per constatare che la volontà dei padri conciliari esigeva per il nuovo rito di Paolo VI che non si dovesse mai deflettere da questa via.
In conclusione il silenzio da parte di Roma, che è durato cinquant'anni, si è finalmente tramutato in parole chiare, sia da parte di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI. Ora, tutto sommato, dovrebbe essere più facile e giustificato, negli orizzonti della musica sacra, sperare nel risvegliarsi e nell'incedere di una nuova aurora. Sic nos Deus adiuvet!


Valentín Miserachs Grau

L'Osservatore romano - Edizione quotidiana del 5-6 novembre 2007

 


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